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EMOZIONI

Cos’è un’emozione?

È ciò che provi nel vedere la persona amata,

È il dolore che senti nel vederla ferita;

è quel senso di vuoto improvviso,apparentemente incolmabile.

È il benessere che senti se sei con chi vuoi bene,

è lo strazio che si crea quando te ne separi.

Emozione è la solitudine della notte,

la paura di andare avanti,di crescere,

di non superare il giorno dopo,

la paura di essere dimenticato,

la voglia di dimenticare il passato;

la speranza di un futuro migliore,

l’inquietudine di affrontare il presente.

E ogni giorno ha qualcosa di speciale;

è una culla di emozioni,di pensieri,

liberi di nascere e morire.

Emozione è la sensazione di brivido incontrollabile

 che provi nel pronunciare

o semplicemente sussurrare,

la parola:

EMOZIONE!

Federico Di Tullio

Emozioni

Joanna è una ragazza semplice. 
No, mi correggo, non è semplice. Forse semplice nell'aspetto. O forse neanche in quello. Comunque non lo è nel resto. Nessuno è semplice nella mente, nel cuore o nell'animo (che, per quanto ne sa, potrebbero indicare tutti e tre la stessa cosa), nemmeno la persona che ci può sembrare la più banale al mondo. 
Ogni persona è un inestricabile gomitolo di lana, le cui infinite estremità sono legate ad altre estremità di altri gomitoli.
Ma torniamo a Joanna.
Fragile, silenziosa, diffidente. Ma allo stesso tempo sorridente, esuberante, fiduciosa.
Ha una mente scientifica. Collega ogni oggetto, ogni momento, ogni avvenimento ad un numero, una figura, uno schema.
Legge. È aperta ad ogni tipo di lettura, ma sono pochi i libri che sente veramente suoi. Ogni volta che legge si sente libera. Per ogni libro che tiene in mano, sente che quelle pagine le appartengono, come se ogni parola fosse stata scritta esclusivamente per lei, affinché lei la leggesse.
Ogni libro è un viaggio. Mason Cooley diceva "Reading gives us some place to go when we have to stay where we are." Joanna desidera viaggiare, conoscere nuove culture, nuove persone, nuove voci, nuovi volti. Essendo molto giovane, però, non sempre ha la possibilità di farlo. Ma un libro è in grado di farla viaggiare più di ogni altra cosa, come quel libro di Calvino in cui Marco Polo visita città straordinarie e le descrive al suo sovrano. Joanna in quel momento si sente lì, in quella città dove tutto è sottosopra e non c'è un inizio nè una fine. 
In ogni libro incontra nuove persone, e si affeziona ad alcune, prova avversità nei confronti di altre, arriva ad odiare alcuni personaggi, proprio come nella vita reale. E, come se avesse perso un amico caro, prova malinconia quando termina un libro. Ma in fondo si sa: anche dopo un lungo viaggio, alla fine si torna sempre a casa. E allora ecco che le prende un'irrefrenabile desiderio di leggere ancora, di cominciare un altro viaggio, una nuova avventura in chissà quale foresta misteriosa abitata da creature fatate o un vecchio castello in cui si deve risolvere un crimine o una stazione tranquilla dove fermarsi a pensare e magari, a leggere un buon libro, in attesa che arrivi il treno per il prossimo viaggio.

 

Laura Cupellaro

Joanna è una ragazza semplice.

Libertà

La libertà è un sogno da raggiungere,

da realizzare

da dare a chi non ce l’ha.

La libertà è un diritto

a volte solo sottoscritto.

La libertà è nel cuore,

nella vita di chi

l’ha cercata,gridata e voluta.

La libertà è di chi varca un confine su un barcone

in mezzo al mare;

è nel raggio di sole che entra nel cuore

di un uomo che ha trovato l’amore.

L’amore è la gioia di essere libero

in un mondo migliore

senza odio e senza rancore.

Federico Di Tullio 4F

Libertà

“Credimi…”
Tra gli adolescenti capita spesso di parlare dei propri problemi e delle emozioni legate ad essi. Lo facciamo per esprimere il nostro dolore, il nostro disappunto, il nostro disagio. Parlare dei nostri problemi può essere molto difficile e altrettanto doloroso è ripercorrere questo percorso anche a parole: parlarne con una persona a noi cara, come un amico o un fidanzato, però, ci può aiutare a condividere con l’altro il problema e insieme a cercare una soluzione. Molto spesso capita di sentirci dire: “Andrà tutto bene, credimi”; noi possiamo abbozzare un sorriso perché ci fa piacere sentire vicino la forza del nostro amico e la fiducia che ripone in quella frase o nel voler cercare con noi una soluzione; ma effettivamente, dietro quel sorriso, quante volte riusciamo davvero a crederci, a credere che andrà tutto bene, a credere che le cose possano cambiare veramente se utilizziamo questo o quell’approccio? Sicuramente quell’ “andrà tutto bene” può rivestire per noi un ruolo importante nella costruzione di un rapporto ancora più solido attraverso la fiducia che riponiamo nell’altro, ma il problema è costituito da quel “credimi”. Quando stiamo tanto male per una situazione che ci riguarda o ci coinvolge direttamente, come possiamo credere facilmente che andrà tutto bene? E ancora: quando non riusciamo a cambiare le cose perché pensiamo di aver già fatto tutto il possibile per modificarle e trasformarle in meglio, come possiamo credere e aver fiducia che possa esserci ancora un ultimo tentativo, un’ultima cosa da fare per cambiare ciò che ci fa soffrire? Probabilmente quell’ultima soluzione attende soltanto di essere provata, perché è nell’indole umana dubitare delle cose senza prima averne attestato la validità. Le soluzioni possono essere diverse: bisogna trovare la propria, bisogna avere vicino la persona giusta pronta a condividerla con noi, a tenderci la mano quando quella soluzione ci apparirà troppo distante e impossibile da raggiungere, pronta a incoraggiarci con quell’ “andrà tutto bene”, con quel fatidico “credimi”. Ma per riuscire a crederci dobbiamo necessariamente credere prima in noi stessi, nelle nostre capacità di riuscire a trasformare in meglio quello che tanto ci fa soffrire. E quella persona speciale è lì quando questa fiducia in noi stessi non l’abbiamo, è lì quando non riusciamo a reagire, è lì quando per cambiare la situazione c’è bisogno di quel coraggio che non abbiamo, quando ci sentiamo troppo soli per affrontarla o ci risulta più facile dubitare della sua efficacia e rimanere inermi, bloccati in questo vortice di sofferenza che senza quei “credimi”, “la situazione puoi modificarla in meglio”, “ci sono io con te”, “non sei sola in questo percorso”, finirebbe per avvolgerci completamente e trascinarci nel profondo buio del baratro.
D’Uffizi Asia (5F)

Credimi

Il racconto del tempo perduto e dalla Speranza trovata

 

«Don Pietro alle 6 saremo sotto casa vostra, per le 7 saremo a destinazione, il bambino frequenta la scuola del paese e di solito lo accompagna la zia.  Sarà una passeggiata distrarre la vecchia e portare via il bambino. Tra l’altro quel bambino è così strano, non parla, non alza mai lo sguardo. Sarà mica handicappato? Io non me lo tengo a casa un bamboccio ritardato, Don Pietro» disse Scà. Don Pietro spense il sigaro e fissò a lungo negli occhi Scà: quel giovanotto era stato in gamba, in solo una settimana aveva registrato tutti i movimenti di quel pezzente di Carmelo e soprattutto quelli di suo figlio. Quel ragazzino andava fatto sparire, e allora sì che il padre si sarebbe impaurito. «Non mi interessa Scà, tu prenderai quel bamboccio e te ne occuperai, finché quel mezzo uomo di Carmelo non mi avrà ridato tutti i miei soldi. Deve capire con chi ha a che fare, Don Pietro non scherza!». «Ma quanto chiederemo di riscatto?»

 

L’aria era così satura di fumo che riuscire a riconoscere le persone sedute al tavolo rotondo del suo salotto era quasi impossibile. Erano una decina di persone, forse dodici. Le lacrimavano gli occhi per il fumo e per la rabbia. Era la prima volta che riusciva ad assistere ad una di quelle riunioni che suo padre definiva “di lavoro” e, in un attimo, tutto le fu chiaro. Si percepiva il peso del male in quella stanza, incastrato fra l’odore del tabacco e del caffè. Avrebbe avuto poco tempo per decidere che fare, anzi pochissimo, ma era convinta di dover fare qualcosa. Sasà non merita il destino che dodici uomini seduti ad un tavolo di radice di ciliegio avevano scelto per lui. Pianse a lungo, non voleva crederci. Suo padre non poteva aver pronunciato quelle parole. Era impossibile, eppure l’aveva fatto. Speranza sapeva benissimo che se non avesse sbattuto la porta in faccia a quel male che cercava di aggrapparsi ovunque, avrebbe preso piede, avrebbe vinto. Si raggomitolò nell’angolo fra la poltrona e la lampada, diventò così piccola che arrivò a dubitare della sua esistenza. Quando la vita ti lancia addosso il male, all’improvviso, mentre credevi che fosse una realtà lontana anni luce, e ti accorgi che quel male nasce nelle stesse membra dalle quali sei nata anche tu, avresti solo voglia di scappare, voglia di non esistere. Quel male potrebbe essere dentro di te, potrebbe ucciderti da un momento all’altro, potrebbe divorarti: Speranza ne era consapevole, ma era consapevole anche e soprattutto di poter aiutare il suo amico Sasà, anzi di dovere. Il male non avrebbe vinto contro di lei, contro Speranza, contro la speranza.

 

 

Buio. Le tre di notte, o forse le quattro. Correva, correva sempre più veloce. Sarebbe voluta rimanere senza fiato. Alla fine della corsa si sdraiò sotto un albero, il suo albero, l’albero che l’aveva vista crescere, l’albero che aveva ascoltato i suoi sogni e i suoi desideri, le sue paure e aveva consolato tutti i sui pianti. Posò la testa sul tronco contorto del maestoso ciliegio e osservò la luna. Quella era la luna più bella che avesse mai visto, era grandissima ed estremamente luminosa. Quasi le scappò un sorriso pensando a quante cose sarebbero cambiate dopo quello che era successo. Decise di togliersi le scarpe e anche i corti calzini colorati che le aveva regalato nonna Rosa. Adesso sì che si sentiva libera: il vestitino leggero si increspava dolcemente grazie al tiepido vento estivo, lo stesso vento che spargeva nell’aria l’odore di grano maturo, che da lì a poco sarebbe stato mietuto.  Era la fine di Giugno. Aveva disperato bisogno di sapere che ore fossero e questo la infastidiva molto. Aveva riflettuto molte e molte volte su cosa fosse il tempo ed era arrivata a una conclusione della quale andava fiera: il tempo non esiste, è semplicemente una costrizione, una schematizzazione, una limitazione. Aveva capito anche che gli uomini adorano le limitazioni, se ne creavano in continuazione. Limiti su limiti, rendono tutto così schematico, così apparentemente semplice. L’orologio rende l’uomo schiavo del tempo e di questo Speranza era sicura. Sembrerà incredibile ma il tempo ci fa perdere tempo: sono in ritardo, sono in anticipo, è ora, è tardi e nel frattempo gli attimi camminano sotto il nostro naso e spariscono per sempre. Eppure Speranza, adesso, aveva bisogno di sapere che ore fossero, il padre di solito usciva da casa intorno alle cinque e non avrebbe dovuto in nessun modo venire a conoscenza di ciò che era accaduto quella notte. Era un segreto, un segreto privato, un segreto di speranza e Speranza.

Decise di alzarsi, salutò il suo ciliegio, poi si avvicinò alla distesa di grano e poggiò delicatamente una mano sulle spighe. Pungevano, ma pungevano dolcemente, quasi come avessero voluto accarezzarla, ma non fossero state in grado di farlo. Pensò che molte volte succede questo: anche suo padre, ne era sicura, avrebbe voluto accarezzarla, ma non poteva oppure non era in grado di farlo. Le mani di suo padre erano grosse e morbide, lei desiderava ardentemente provare la sensazione di calore, di amore che si prova ad essere accarezzati da un padre. Questa sensazione non l’aveva mai provata nella realtà, ma l’aveva immaginata molte volte. Avrebbe voluto assaporare la delicatezza di quelle mani, sempre intrappolate nelle maniche stette di una camicia di seta bianca candida, fermata da gemelli di brillanti e avrebbe voluto osservare da vicino l’anello d’oro che suo padre indossava sempre, giorno e notte.

 

 

Speranza chiuse gli occhi e cercò di bloccare il flusso dei suoi pensieri. Pensava troppo, questa era la verità. Suo padre glielo diceva sempre: diceva che non sarebbe andata da nessuna parte se avesse continuato così. Avrebbe voluto studiare fisica da grande, o forse disegno. I suoi genitori però avrebbero voluto altro da lei e questo la faceva sentire in colpa. Le dicevano che era strana, che amava perdere tempo, che avrebbe dovuto smetterla di passare le ore in camere a fissare il vuoto. Ma Speranza non ci riusciva, non avrebbe mai potuto rinunciare a ciò che faceva, lei era così. Rinunciare a ciò che faceva con tanto amore sarebbe stato rifiutare se stessa, e Speranza si giurò di rimanere Speranza per sempre, contro il volere del mondo, di tutti, anche dei suoi genitori.

Era ora di rincasare, altrimenti suo padre si sarebbe accorto di tutto e per lei sarebbero stati guai grossi. Quello che aveva fatto quella notte - ne era sicura - avrebbe cambiato la sua vita e quella della sua famiglia. La sera precedente aveva pensato a lungo, anche se non avrebbe dovuto, ed era arrivata alla conclusione che era necessario agire. Ci sarebbe voluto tanto coraggio, tanta forza e tanto rischio, ma se le cose fossero andate male lei avrebbe avuto un luogo sicuro dove rifugiarsi: i suoi pensieri.

Staccò la mano dalle spighe ed istintivamente la sfregò sul vestito. Poi la guardò attentamente e ripensò a tutto quello che quella mano aveva fatto e non aveva fatto. È vero, non aveva mai accarezzato suo padre quella mano, ma aveva costruito tanti aeroplani di giornale: suo padre adorava costruirli e le aveva insegnato tutti i trucchi per rendere un semplice pezzo di carta così aerodinamico da poter volare. Libero.

Si abbassò e raccolse i due calzini e le scarpe. Decise di non indossarli, di arrivare a casa scalza: avrebbe sofferto un po’ ma magari sarebbe stato utile per ripensare a quello che era successo. Aveva bisogno di sentirsi libera, in quel momento come mai. Si avviò verso casa con un nodo alla gola e tanto amore nel cuore, ma ebbe paura. Allora si voltò di scatto verso il suo ciliegio, quasi per cercare da lui conforto e girandosi si accorse che il sole stava per nascere, nonostante tutto. Anche lei, come il sole, rinacque in quel momento, si sentì viva davvero. Così contò fino a tre ed iniziò a correre, veloce, velocissima. Sapeva che se si fosse fermata non avrebbe avuto il coraggio di riprendere la sua corsa. In pochissimi minuti fu a casa, andò sul retro e salì la scala, la stessa che aveva usato per scendere. Fu silenziosissima: nessuno, neanche lei stessa si accorse del suo ritorno. Gioiosa e dolorante, posò scarpe e calzini sul davanzale, chiuse la finestra, tirò giù la zip del suo vestito rossissimo e si infilò nel letto, fingendo di dormire. Era convita che quella notte il tempo si fosse dilatato, che tutti gli orologi avessero rallentato il passo: mai come in quel momento fu sicura della relatività del tempo. Un giorno magari avrebbe dimostrato che aveva ragione, avrebbe scritto un bel teorema e sarebbe stata stimata da tutti i fisici del mondo.

 

Suonò la sveglia del padre. Speranza era soddisfatta. Tutto era andato per il meglio, appena in tempo. Il padre si alzò e si preparò. Dopo un’ora circa, in cortile già erano parcheggiate tre auto di alta cilindrata e a bordo erano sistemati tutti gli amici del padre di Speranza. Tutti indossavano la stessa camicia bianca e lo stesso anello d’oro giallo. La sera prima si erano riuniti per organizzare tutto perfettamente: avevano stabilito gli orari, i luoghi, i modi per agire. Scà baciò l’anello di Don Pietro e subito partirono.

Alle sette erano fuori scuola, ma Sasà non passò accompagnato da sua zia. E neanche da sua nonna. Sasà non passò proprio. Eppure sarebbe dovuto passare per forza di lì pensò Don Pietro. Il piano, i suoi benedetti soldi: tutto all’aria, aria impregnata di odore di fumo e caffè, e soprattutto di male.

Nella sua vita mai nulla era andato storto, mai nulla sarebbe dovuto andare storto. Tornò a casa, si buttò sulla poltrona e si sorprese a piangere. Lui, che a quaranta anni possedeva più soldi di una banca, ma si sentiva povero. Che aveva oltre ai soldi? Nulla. Sua moglie e sua figlia. La moglie alla quale non poteva parlare mai di se stesso a causa di quel giuramento fatto a soli dieci anni: una spilla che punge il dito, una goccia di sangue e si è potenti per sempre, gli aveva detto il padre. O forse schiavi per sempre. Don Pietro pensò a suo padre, e ripensò a quanto avrebbe voluto davvero essere suo figlio, e pensò a sua figlia che gli chiedeva in continuazione di essere accarezzata, di essere considerata, di essere amata proprio come faceva il cucciolo di Don Pietro con il suo di papà. Si accorse solo allora di essere il nulla. Di essere una camicia di seta, di essere un anello d’oro e niente più.

 

Luce. Le tre di pomeriggio. Sul binario 15 della stazione era in partenza il treno di Speranza. Seduta ad una panchina faceva il bilancio della sua vita. Aveva 19 anni adesso, aveva finito con successo il liceo e quel treno l’avrebbe portata verso il futuro, lontano da lì. Stavolta, dopo aver sbattuto la porta in faccia al male, avrebbe chiuso anche a chiave in passato. Sentì un suono sordo e metallico, arrivò un treno ad alta velocità, rosso come il fuoco, come le ciliegie mature che gustava seduta sotto il suo albero, come il vestitino leggero che veniva mosso dal vento lieve. Molte cose erano cambiate da qual giorno ma non l’amore per la fisica e il disegno. Nella vita, però, Speranza avrebbe fatto altro. Si era iscritta a medicina e dopo la laurea sarebbe diventata ricercatrice. Doveva capire tutto quello che c’è da capire sull’autismo. Doveva farlo per sé ma anche e soprattutto per il suo migliore amico, per Sasà.

 

Suo padre, dopo quella notte, forse per magia, forse perché l’amore e il coraggio sono in grado davvero di sconfiggere il male, aveva fatto le valige ed era partito, era andato lontano anche lui, anche lui aveva scelto di chiudere col passato. Prima di partire era entrato in camera di Speranza, l’aveva abbracciata, un abbraccio soffocante e duraturo, un abbraccio che in un attimo seppe cancellare anni e anni di freddezza e lontananza. Non le disse neanche una parola Don Pietro. Non aveva nulla da dire, sua figlia avrebbe capito tutto da sola. Si trovò a sorridere Speranza, si stropicciò gli occhi neri come la pece e cercò di bloccare il flusso dei suoi pensieri: pensava sempre troppo. Si alzò, si fissò le scarpe ed iniziò a correre verso il binario 15. Salì sul treno e si mise seduta, la guancia spiaccicata con forza sul vetro che piano piano si appannava sempre più. Il treno stava partendo: un ultimo sguardo al suo punto di partenza, a quella stazione. Seduto sulla stessa panchina dove Speranza aveva atteso il futuro c`era un uomo, un uomo solo. Stava piegando un giornale per farne un aeroplano e stava facendo i conti con il passato. Speranza avrebbe giurato di conoscere quelle mani. Quando l`uomo solo alzò lo sguardo, non ebbe più dubbi. Si fissarono per un attimo eterno: sparì il tempo e anche la distanza e anche ogni dubbio. Gli occhi che Speranza stava fissando erano gli occhi di suo padre, di Pietro, non più quelli di Don Pietro.

 

Chiara Borri

il racconto...

                                                                 Il mio sguardo bloccato

 

 

L ' orizzonte è laggiù

dove il mio sguardo non può giungere,

perchè offuscato ….. da questa nebbia

che trasmette malinconia .

 

Persone non ce ne sono,

piazzali, vicoli, strade vuote

perchè bambini non giocano.

Anche per fumare fa freddo

tutti a casa a scaldarsi.

 

Io invece no, sul monte

a cercare di allontanare ogni pensiero

di cui non sono fiero.

 

Il vento gelido che soffia

sembra che mi porti via,

ma è soltanto una convinzione

della mia  immaginazione.

 

A picco del monte il mare

che con il suo rumore

dello onde che dura per ore

mi fa innamorare di codesta

stagione che è ormai alle porte e sta ad indicare

che un altro mese è passato.

 

È ora di andare

perchè l' indomani c'è molto da fare.

 

 

                                                                                                       

    Gabriel Marcos Soares

 

il mio sguardo

                   LA STORIA DEI SUPEREROI

 

Nel 1933 nasce il primo fra tutti i supereroi, Superman.

In quegli anni  andava molto in voga la fantascienza; così venne questa idea a Jerry Siegel, giovane studente della Glenville High School che insieme a Joe Shuster, fu l’inventore di Superman il quale per l’appunto è un alieno. Dopo Superman, nasce un eroe molto diverso di nome Batman, creato da  Bob Kane e Bill Finger e pubblicato anche questo dalla DC comics, a quei tempi chiamata National Publications, unica casa editrice che ai tempi non rifiutò Superman, e vedendo il successo che fece, non rifiutò nemmeno Batman.

Per crearlo Kane venne influenzato dall’Uomo Ombra e da Zorro, un personaggio immaginario che era stato creato prima di Batman, e anche della macchina volante di Leonardo da Vinci.

Batman nasce un anno dopo l’uscita di Superman, e al contrario di questi non aveva alcun superpotere, anche se disponeva di molti gadget grazie al suo denaro, e il pubblico non lo accettò subito, probabilmente per questo motivo. Inoltre Batman era molto più cupo di Superman.

Batman, insieme ad altri fumetti, rischiò di essere rovinato per sempre a causa di una pesante censura dei fumetti avviata a causa dello psichiatra tedesco  Fredric Wertham, il quale scrisse un saggio: “La seduzione degli innocenti”,  in cui metteva in guardia i genitori dei ragazzi americani dal far leggere i fumetti ai loro figli,  dicendo che questi avrebbero trasformato i figli in delinquenti.  

Questo psichiatra, a parte far crollare le vendite dei fumetti, iniziò anche ad elaborare le sue teorie personali più che discutibili, disse che a suo parere Batman e Robin avevano una relazione gay, e infamò più volte Batman per la sua violenza e la sua atmosfera dark.

Qui entra in scena la Marvel, con Capitan America uscito nel 1941, che nel suo primo numero dà addirittura un pugno ad Hitler stesso. Egli era un personaggio nato nella seconda guerra mondiale, per propaganda, che rappresentava un’ America libera e democratica, che fece scalpore in quegli anni ma che perse popolarità dopo la guerra. Nel 1964, Stan Lee  lo ripropose donandogli una sensibilità e un'umanità nuova, e spesso le sue storie denunciavano le differenze sociali e la corruzione presenti nella società americana. Così il personaggio riacquistò la fama che aveva perso. Questi fumetti divennero lo specchio della società americana, gli adolescenti li adoravano, adoravano i supereroi da cui potevano prendere esempio ed erano affascinati anche dalle loro nemesi.

Spiderman, fu ideato da Stan Lee che si occupo dei testi, e Steve Ditko che pensò ai disegni,nel 1962, e fu pubblicato dalla Marvel Comics. Con Spider Man si ha una vera e propria innovazione, ora il supereroe di turno non è più sicuro di sé, è pieno di dubbi, è spesso indeciso e si comporta come un adolescente qual è.

Quindi i fumetti si riprendono, e anche i fumetti come Batman tornano ad essere interessanti come un tempo, e l’intento di Fredric Wertham, per fortuna fallisce.

Non bisogna cadere nell’errore di pensare che i fumetti siano stupidi o infantili come molti adulti pensano, forse di questi tempi stanno diventando commerciali e stanno perdendo il loro fascino, è vero, ma da come abbiamo visto dalle loro storie, non significa che sia sempre stato così.

Io ritengo il fumetto un metodo di narrativa meraviglioso, una fusione tra il disegno e la scrittura, e quando questo è formato da disegni fantastici e accattivanti e da testi coinvolgenti ed emozionanti, si ottiene qualcosa di fantastico. I supereroi nei fumetti sono stati anche un mondo alternativo per gli adolescenti, un mondo di speranza nei periodi bui in cui essi sono stati creati, cioè verso l’inizio della seconda guerra mondiale. Ma ancora adesso molti adolescenti e anche alcuni adulti amano leggere le storie di questi personaggi immaginari che passano il loro tempo ad affrontare le più svariate nemesi e ad aiutare il prossimo in mille modi diversi. Quindi questo è ciò che penso riguardo ai fumetti e ai supereroi che ne sono protagonisti ,  che ritengo un’ arte.

 

Asia Yakoubi 3H

 

 

 

la storia dei supereroi

 

Carnevale

 

Perché la vita è un continuo carnevale,

ognuno indossa la sua maschera,

ognuno comincia a recitare.

E come è bello il mio personaggio,

uomo spavaldo e pieno di coraggio.

 

Ma cosa celano le sue false membra,

se non un uomo che stenta,

arranca

e annaspa.

Anime fragile e frammenta,

cenere e polvere nel cuore.

Dolore.

 

Lui, cavaliere valoroso,

demone pioniere della sua stessa mente.

Che mente

e finge

e diffida,

che teme questa gente infima

e cerca quello che ha perduto;

se stesso.

Oppure un tetto,

una casa,

un cuore in cui giacere

un’anima con cui danzare

una luce da seguire

qualcosa per cui morire.

-Russo Marika 1D

carnevale

Le stelle prima dell’alba

Metafora del primo amore di un guerriero

 

Tacita era la notte e illuminata da miliardi di stelle sparse nel buio.

Un mantello lungo e ondulato toccava il terreno roccioso; era un guerriero che sfiorava con la punta delle dita la sua spada e guardava la nebbia frastagliata all’orizzonte dalle montagne violacee.

Aveva combattuto a lungo dentro di sé, come il timoniere di una nave che riemergeva dalle onde in tempesta. La sua nave era diretta verso l’Isola del Valore, verso l’auto-miglioramento, verso il cambiamento irrefrenabile della vita.

In quel momento inclinò le gambe piegando le ginocchia per sporgersi in avanti e ammirare il panorama; ora sentiva il profumo del muschio e dei fiori estivi che, alla luce del sole del giorno seguente, avrebbero vestito i prati di molte varietà di colori.

Ogni sera quel marinaio si sdraiava sulla prua della sua nave e con la testa rivolta verso nord, ammirava il cielo notturno: si sentiva come le stelle in attesa dell’alba, come il cielo prima di essere velato dai raggi del sole.

Ora la sua nave giaceva in frammenti lungo la costa, i suoi compagni d’armi erano caduti in battaglia o fuggiti dalle acque ruggenti del nero oceano.

Egli era l’unico sopravvissuto alle illusioni della vita. Era fuggito dalle arpie e dal canto persuasivo delle sirene, che ancora poteva percepire tra il frastuono delle onde.

Adesso fuggiva da una bellezza quasi divina, da una creatura dolce e fragile che lo aveva trascinato lontano dalla sua meta. Ella aveva i capelli bruni e ondulati, una carnagione scura e degli occhi che solo le dolci ninfe del mare possedevano.

Il timoniere soffriva profondamente. La sua mente generava una tale confusione da percepire l’amore come un pretesto per non adempiere alla sua missione.

“L’ho persa e forse è meglio così”.

Il suo manto purpureo danzava al vento, le onde del mare generavano un frastuono intenso e poi sordo, la spuma si stendeva sopra gli scogli e poi tornava indietro nelle acque.

“La mia mente mi si è rivoltata contro e si prende gioco di me; mi tormenta nei sogni, non riesco a vivere. Forse questo è amore oppure non ho combattuto abbastanza nel mio cuore e se la mia visione dell’amore è questa sofferenza, io non so amare.

Dov’è la mia principessa dai lunghi e ondulati capelli neri?

Eppure la vedo ancora davanti a me, con quei due diamanti verdi al posto degli occhi e quel sorriso color argento come la luce di queste stelle.

Ora aspetto l’alba per nascondere questa luce così splendida, così amara. Aspetto che i raggi del sole celino questo mio ricordo che io odio e amo.”

La notte oscurava il cielo con il suo manto, il frusciare del vento diveniva sempre più intenso e le chiome degli alberi danzavano nell’oscuro silenzio interrotto dalle onde che si infrangevano sui faraglioni.

Tra gli arbusti in fondo agli scogli, scivolò dolcemente sulla cresta della spuma marina, una fiasca trasparente con al suo interno un rotolo di pergamena in pelle d’agnello che recitava delle soavi parole:

“Sere d’estate

Per dimenticare o per rivivere l’inverno?

Sere d’estate senza sole, senza mare, senza quiete nel mio cuore.

Sere d’estate dove tutto si arresta fuori dall’uomo e dentro tutto cambia.

Se non vi è il mare, se all’orizzonte il tramonto è oscurato da questa nebbia, se è la tua illusione a farti sorridere, sentirai il gelo dell’inverno nel tuo cuore e le lacrime cadere a terra come foglie d’autunno, le quali imprigionano la luce di quegli occhi e ti rendono schiavo di un destino che continui a seguire. Schiavo del triste passato che è solo da cambiare.

Il tuo futuro è la vita, giacché la morte è stata il tuo passato. Perché la morte non è un cadavere, ma è non accettare il cambiamento, perché la vita non è rimanere a guardare, ma è combattere per non morire.”

La luce sotto l’orizzonte, ormai, squarciava il cielo sfumandolo con diverse varietà di colori e nell’aria si udiva il profumo mattutino della sabbia salata.

“Un vero combattente nel cuore

ha sempre le stelle prima dell’alba,

questo perché l’alba è un nuovo inizio

e le stelle la decisione di non arrendersi mai.”

 

Davide Asci 3F

le stelle prima dell'alba

È ora di cambiare....

dedicato agli studenti del primo anno...

 

 

Le montagne viola del mattino seguente frastagliavano il cielo, che veniva poco a poco sfumato dai raggi del sole. I miei occhi si aprirono e avvertii il gelo del mattino.«È Ora di Cambiare».Un po' di tristezza nel fondo del mio cuore c'era. Otto anni in quel paesaggio di campi e fiori; ormai è ora di crescere, è ora di portare al mondo qualcosa di mio.Insomma, mi alzai e con un passo malinconico mi avviai in cucina. La radio era accesa, quindi ascoltai il giornale radio.Stavano intervistando una signora: «Questo mondo fa schifo...», le parole che diceva entravano nel mio cervello e facevano male, poiché erano fredde e pungenti.

Perché molti se la prendono con il mondo, con chi sbaglia, e poi ripetono i suoi stessi sbagli?
I ricordi vennero penetrando nel mio cervello, come un raggio di sole penetra attraverso una finestra.
Ricordai quando ero in quarta elementare e il maestro mi domandò: «Dove finisce il mondo?».
Nessuno sapeva rispondere; beh forse in America o in Groenlandia, ma il maestro dette una risposta ben precisa: «Nel nostro cuore».
Per sei anni ho pensato a quello che lui volesse dire. E finalmente ho trovato la risposta.
Noi siamo il mondo e il mondo è in noi.
Le vere leggi sono quelle della natura e non quelle create da noi.
Le cause positive o negative avranno un effetto nella nostra vita.
Il biscotto bagnato dal latte caldo ora si frantumava tra i miei denti e io, gustandone il sapore, mi sommersi nei miei pensieri, che mi portarono in un campo dove io indossavo abiti medioevali. Un fiume scorreva alle mie spalle, mentre davanti a me c'era un fuoco acceso e la mia classe vestita in abiti medievali. No, non sto fantasticando!
Eravamo in gita, lo ricordo come se fosse ieri...
La luna era piena e la sua luce argentata illuminava la faccia dei miei compagni.
Quella notte la passai tutta a chiacchierare con i miei amici al chiaror della luna e delle stelle in miliardi di direzioni. Sembrava di essere cavalieri medievali che, liberi da tutti gli arnesi moderni, vivono con semplicità.
Ricordo tutte le gite con la classe e tutte mi hanno insegnato qualche cosa: le Olimpiadi romane, l'uscita sul monte Semprevisa e ... la gita di astronomia.
La gita di astronomia mi ha insegnato a dialogare con gli altri e che la vita dell'essere umano è generata dall'incontro del corpo e dell'anima. 
L'essere umano è potentissimo e le sue parole possono anche essere un'arma micidiale.
Adesso la terza media è finita ed è ora di portare qualcosa a questo mondo, e che sia una causa positiva.
Mi ricordo quando il maestro ci ha parlato dell'Africa e mi sono accorto quanto il mondo sia diviso. Prima la terra era unita, come il mare, poi tutto si è diviso: prima in continenti, poi in stati, in regioni, in città e in paesi sempre più piccoli.
Ci siamo divisi anche in lingue, in religioni e infine tra persone: quelle scure di pelle e quelle di bianca carnagione.
Tutto questo ha scatenato il frutto della parte umana oscura: la guerra.
È incredibile come è facile perdersi dentro di noi. Tra inganni e ostacoli della vita, pochi sono riusciti a raggiungere la felicità.
Spero che anche io come questi riuscirò a raggiungere il mio scopo, perché la vita è un'occasione per trovare qualcosa dentro di noi, che è spesso la gioia di aver vissuto e di aver messo cause positive, che influenzano il mondo e lo incitano a cambiare.

 

DAVIDE ASCI  2°F

 

 

 

 

 

 

è ora di cambiare

II quattro libri più letti del 2014 secondo PANORAMA:

1° Roderick Duddle', di Michele Mari

Roderick Duddle è un romanzone di avventure, ambientato nell'Inghilterra dell’Ottocento. Il protagonista è un orfano in fuga, custode di un misterioso tesoro nascosto chissà dove. A prima vista sembra di leggere un'opera perduta di Dickens o di Stevenson, e i due riferimenti peraltro sono apertamente omaggiati dall'autore nel testo. Ma quello di Mari resta solo un trucco per deliziare il lettore con la sua scrittura, ancora una volta di qualità davvero pregiata.

2° 'Storia della bambina perduta' di Elena Ferrante

Il 2014 è stato senza dubbio l’anno della consacrazione di Elena Ferrante, un'autrice brava quanto enigmatica (evita di mostrarsi in pubblico e si nasconde dietro uno pseudonimo). Chiunque lei sia, poco ci importa. Storia della bambina perduta è il quarto nonchè ultimo volume dell'Amica geniale, serie di romanzi giustamente incensata dai critici - da quelli italiani ma forse ancora di più anchedagli  americani. La tetralogia narra un'amicizia fra due donne nel tortuoso percorso di emozioni dall'infanzia all'età adulta. Il tutto una scrittura avvincente e inarrestabile. Presto ne faranno anche una serie tv, ma il consiglio è di procurarsi tutti e quattro i libri e tracorrere in loro compagnia il 2015.

3° "Lacci', di Domenico Starnone

Quando gli abbiamo chiesto quale fosse il miglior titolo letto nel 2014, Francesco Piccolo ha scelto Lacci perché, diceva lui, i protagonisti fanno litigare i lettori, e proprio questo dovrebbe essere il vero mestiere dei buoni personaggi. In effetti il bello del libro risiede proprio qui: è facile identificate persone conosciute o amate, o persino se stessi, nel breve romanzo di questa coppia divisa dalla distanza (lui è scappato di casa; lei, arrabbiatissima, lo aspetta ancora) ma legata dai nodi della vita, e parteggiare per l’una o per l’altro, o per i figli, rimasti con la madre. Un romanzo sull'amore - doloroso, difficile - per la famiglia. La bravura di Starnone non è certo una scoperta, ma fa piacere vedere come il Nostro conservi il suo estro negli anni.

4° 'Il Trio dell’Arciduca', di Hans Tuzzi

Una spy-story nostalgica, messa in scena nel 1914 in un'inseguimento attraverso l'impero asburgico e l'Europa orientale, da Trieste fino a Costantinopoli passando per la fatale Sarajevo. Da molti anni Adriano Bon, giallista dalla scrittura elegante, firma i romanzi con il nome di un personaggio letterario famoso: Hans Tuzzi, il burocrate marito di Diotima in L’uomo senza qualità di Musil. Con il Trio dell’Arciduca, herr Tuzzi coglie nel segno: realizza forse il suo romanzo migliore nonché uno dei più riusciti dell'anno in corso.

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